martedì 10 aprile 2012

DEAD SKELETONS - Dead Magick


DEAD SKELETONS
Dead Magick
(A.Recors Ltd)

Questi tre ragazzi islandesi ci sanno fare, inutile dirlo. Riprendere una delle simbologie più classiche del rock, che va dai Velvet Underground di Venus in Furs sino ai modernissimi BRMC passando per una miriade di altri gruppi, e riuscire ad inserirsi nel panorama internazionale con un disco che, senza alcun tipo di compromesso e contando solamente sulla propria radicalità, viene definito dai più come un capolavoro, non è cosa da poco. Nonni Dead, Henrik Bjornsson e Ryan Carlson Van Kriedt - i tre componenti del gruppo che fino a poco tempo fa hanno tenuto le proprie identità celate dietro anonime maschere scheletriche - non hanno l'aria dei novellini e si muovono con una discreta abilità nell'evocare tutta una serie di numerosi riferimenti senza mai copiare esplicitamente, e aggiungendo sempre qualcosa di "nuovo".
Altra cosa di non poco conto: Dead Magick è un doppio, segno di coraggio e ispirazione. I 12 pezzi che lo compongono (73 minuti stranianti di musica) sono uno strano miscuglio di trance-punk, elettronica e di funk-blues à la Can, che convogliano insieme i Velvet Underground e i Suicide, The Jesus and The Mary Chain e i Joy Division, i Neu e i Bauhaus. La destrezza con cui la ricetta è composta e servita è fuori discussione e porta i Dead Skeletons nella contemporaneità, ponendoli a pieno diritto accanto ad altri "eredi" come BRMC, Black Angels, Brian Jonestown Massacre, Warlocks, ecc.

Il disco può essere letto come un'unica progressione che parte con il Dead Mantra, oscuro distico eletto a motto del gruppo che recita "colui che teme la morte/non può godersi la vita", attraversa il sintetizzatore spaziale di Psycho Dead, sussulta come Alan Vega in Dead Magick I, fa un salto spettrale con le dilatazioni Spectrum-Boom di Ask seek Knock. Ljosberrin è un terremoto Neubauten che rigetta tutto e tutti in un caos tribale primordiale. Le chitarre shoegaze annunciano una (parziale) catarsi: tutto si illumina con la celeste When the Sun Comes Up. Yama è un blues di strada che permette di prendere l'ultima boccata d'aria prima di sprofondare nel ritmo frenetico della conclusiva Dead Magick II, che sancisce l'indivisibilità degli elementi celestiali e ctoni, del Bene e del Male, della Vita e della Morte.
Questa è la strada, questo il cammino dalle sfumature dark, ma che non rinuncia a una certa naivité buddista e, allo stesso tempo, a un quasi-shakespeariano senso dello humor, come per rimarcare che "è solo rock'n'roll".

Il consiglio è spassionato: ascoltate questo disco, seguite questo gruppo (si vocifera di una stretta collaborazione con Brian Jonestown Massacre), godetevi la Vita e non temete la Morte.


Voto: 8/10
13thSpaceman

domenica 1 gennaio 2012

LUO REED & METALLICA - Lulu


LOU REED & METALLICA
Lulu
(Mercury)

Come ogni volta che abbiamo a che fare con un disco evento, ad esempio nel caso di una collaborazione inaspettata come questa, è molto difficile riuscire a dare un giudizio: le aspettative non sono molte volte soddisfatte, i miracoli succedono poche volte, e si finisce per dire che il lavoro è deludente e che mette insieme le parti peggiori dei concorrenti.
In questo caso si è parlato molto, e alcune volte anche troppo, senza dubbio anche per pompare commercialmente l'evento: la rivista Rolling Stone ha addirittura tirato in ballo Berlin e Master of Puppets, tra i migliori (vecchi, vecchissimi) lavori di Lou Reed e dei Metallica.
Cercare di dare un giudizio effettivo in questi casi è veramente difficile. Bisogna andare coi piedi di piombo, senza mai farsi trascinare da quelle che sono impressioni momentanee.
Il lavoro va considerato prima di tutto come un concept album, una storia che racconta la vicenda di Lulu, la femme fatale berlinese d'inizio secolo che trova la propria radice drammatica ne Il Vaso di Pandora di Frank Wedekind.
Il contesto della capitale tedesca è tratteggiato in maniera più che suggestiva dalla iniziale Brandeburg Gate: Berlino è la città delle avanguardie artistiche, dei caffè filosofici e della ricchezza di una delle più forti borghesie occidentali, ma dietro questa facciata, come celata da uno spesso sipario di oppio, si nasconde quella capitale del vizio e della decadenza in cui la nostra stravagante eroina prende vita.
Le storie di perversa passione sessuale - tema con il quale il nostro Lou va a nozze dai tempi dei Velvet - vengono progressivamente lacerate da misteriose lame, le lenzuola dei letti, i tappeti irrorati da sangue che sgorga caldo fuori da vene recise. E' questo lo sviluppo del nostro disco-romanzo: Jack lo Squartatore entra sulla scena (Pumping Blood), mentre la Padrona Terrore miete le sue vittime sessuali (Mistress Dread). Tra sweet-janeani break introspettivi (Iced Honey) e sinfonie autocommiserative (Cheat on Me), la storia della protagonista è destinata a concludersi tra le braccia affilate di Jack (Dragon). La finale Junior Dad, pur non condividendo il tema del resto dell'album, è un universale lamento, una canzone di congedo, un abbandono alla decadenza che lascia intravedere pochissimi barlumi di speranza.

I contenuti, dunque, ci sono tutti. Ma qualcosa indubbiamente manca a questo disco. Si tratta della forma, che trova in una trascuratezza di fondo la propria insufficienza. L'idea loureediana delle free-form lyrics inserite in un contesto musicale duro e metallico poteva trovare, in generale, una configurazione migliore, cosa che avviene solamente con alcuni pezzi (Junior Dad, Dragon e Frustration su tutte).
Responsabili forse vanno considerati i Metallica, a cui Reed ha lasciato interamente in mano il timone degli arrangiamenti della struttura principale delle canzoni.
Quegli stessi Metallica che escono da questa esperienza contemporaneamente vinti e vincitori: vinti da un punto di vista commerciale, vincitori perché hanno almeno collaborato a qualcosa di artisticamente sensato dopo tanti, tanti anni.

Voto: 6,5/10
13thSpaceman

sabato 22 ottobre 2011

GIGAN - Quasi-Hallucinogenic Sonic Landscapes


GIGAN
Quasi-Hallucinogenic Sonic Landscapes
(willowtip)

Il metal è un genere difficile a cui approcciarsi. Prima di tutto per la difficoltà di ascolto che richiede: dalle lunghe cavalcate speed/metal alle grida di dolore nichilista del più underground dei gruppi grindcore non è certo una passeggiata ascoltare un album – difficoltà a cui, però, per un ascoltatore medio è facile passare sopra dopo aver superato lo scoglio iniziale -.
In secondo luogo il metal richiede anche una certa fedeltà a determinati canoni stilistici, che o si amano o si odiano. Questo spiega la netta divisione in sottogeneri, molto più severa e rigida di quanto avvenga per altri generi (anche quelli più recenti come il punk).

I Gigan sono una band americana formatasi negli ultimi anni e diventata una delle band più innovative del death-metal contemporaneo. La formula è, da un punto di vista immediato, semplice ed efficace: trio che suona a velocità metanfetaminiche, con testi che si rifanno alla tradizione letteraria lovecraftiana filtrati da strazianti urla cosmiche.
La peculiarità che rende molto interessante il loro ultimo lavoro in studio Quasi-Hallucinogenic Sonic Landscapes sta nel vortice sonico che letteralmente travolge l'ascoltatore. Ogni aridità è lasciata da parte e dai solchi emergono ondate cosmiche alla Hawkwind, schizofrenie chitarristiche stile Orthtrelm, lunghe cavalcate che stanno tra l'Hendrix più acido e gli Iron Maiden più progressive, dirompenti stacchi che ricordano i Morbid Angel più spietati (quelli dei primi dischi).
In questo disco i Gigan suonano metal, è vero, ma allo stesso tempo lo trasfigurano verso nuove geometrie e ne rompono i sin troppo rigidi canoni, ripercorrendone la storia sin dalle radici più profonde.

Voto: 8/10
13thSpaceman

venerdì 7 ottobre 2011

PJ HARVEY live@ Ferrara, Piazza Castello - 6 Luglio 2011


Il caldo è terribile, ma la gente è accorsa da tutta l'Italia per vedere l'unica data di una delle icone più importanti della musica degli ultimi vent'anni.
La splendida piazza fa presto a riempirsi. La protagonista non si fa attendere più di tanto e alle 21,30 sale sul palco con un candido vestito di scena e le piume tra i capelli.
PJ Harvey
recita perfettamente la sua parte: fredda, con la tragedia negli occhi, interpreta con la sua verve intrisa di un'aura quasi divina tutte le canzoni del nuovo, bellissimo album Let England Shake.
L'apporto della band è prezioso oltre che di forte impatto.
La nostra musa si concede poco al pubblico che, innamorato di lei alla follia, pende letteralmente dalle sue labbra e conosce a memoria anche i passaggi meno significativi dell'ultimo disco.
Nessun successo dal passato. Poche parole; giusto per ringraziare.
E così, dopo un'ora e mezzo abbondante, PJ saluta una piazza Castello ricolma che continua a chiamarla (inutilmente) per altri bis.
Ma a noi va bene lo stesso: come tutte le grandi muse ha cantato la sua storia e adesso si lascia solamente desiderare.

13thSpaceman

sabato 24 settembre 2011

MY DYING BRIDE - Evinta


MY DYING BRIDE
Evinta
(Peaceville Records)

Ben poco da dire, su quest'ultima uscita della Sposa – deludente, né più né meno.
Se già A Line Of Deathless Kings scricchiolava e The Lies I Sire denotava la più totale mancanza d'ispirazione, quest'ultimo Evinta è semplicemente un disco vuoto.

Vuoto e terribilmente pretenzioso, peraltro.
Una serie di arrangiamenti orchestrali\dark ambient a partire da vecchie (e gloriose) linee melodiche di capolavori delle epoche passate.
Una serie di piccole sinfonie; e come idea, ammetto di averla trovata interessante.
Ma i risultati sono tutt'altro che lusinghieri: un disco piatto, che non trasmette alcuna emozione, freddo fino al midollo, e che peraltro osa sporcare la memoria di pezzi storici come Sear Me MCMXCIII.
Non noioso, ci s'intenda; il disco scorre benissimo (la capacità del gruppo di creare pezzi scorrevoli è una qualità che raramente è loro venuta meno) – ma non colpisce affatto, salvo qualche breve, brevissimo passaggio qua e là.
Qualche breve passaggio qua e là, di due dischi di cui è composta l'opera (tre in versione deluxe); e, perlopiù, si tratta dei passaggi melodici dei vecchi classici.
Pare di ascoltare una brutta, orribile copia degli Elènd.

Questa uscita segna un'ulteriore e difficilmente discutibile tappa nella discesa artistica intrapresa da qualche anno a questa parte dal gruppo; poco è rimasto da sperare in un risollevamento della Sposa.
E' riascoltare i vecchi capolavori, a questo punto, la cosa migliore da fare per tutti gli appassionati dell'ensemble.

Voto: 4/10
Laolet

martedì 23 agosto 2011

VINICIO CAPOSSELA - Marinai, Profeti e Balene


VINICIO CAPOSSELA
Marinai, Profeti e Balene
(La Cupa/Wea)

E' la nostalgia e la condizione umana il tema del nuovo disco di Vinicio Capossela Marinai, Profeti e Balene, uscito lo scorso Aprile.
Per tracciare un unico percorso in un labirinto così mastodontico ci voleva come minimo un doppio album. L'attesa non è stata delusa dal nostro, che, pienamente giustificato dalla dura impresa che si è proposto, ha rievocato coautori di tutto rispetto quali Melville, Omero, Celine, Conrad.
I due dischi, pur trattando le stesse tematiche, sono distinti in base a una prospettiva geografica: il primo è il disco dell'Oceano - di Moby Dick e Achab, per capirsi -, il secondo è il disco delle terre mediterranee - di Odisseo e del Ciclope -.
In questo marasma di personaggi, di autori e di citazioni, Vinicio fa la parte dell'umile aedo che racconta storie la cui portata universale trascende i singoli particolari contenutistici e anche le sue stesse forze.
Grandi Leviatani, Polpi, Sirene, Balene assieme al biblico Giobbe, Achille e Billy Bud: vasti scenari su cui si stagliano uomini che vivono i travagli di storie che, per quanto singolari, rappresentano il cammino che ogni uomo compie tra il niente che era e il niente che sarà - come dice il Canto delle Sirene -.

Dal punto di vista musicale l'attenzione per l'orchestrazione globale è tale da sembrare quasi maniacale: tra i solchi è possibile scorgere le onde o rumori che evocano l'incedere di Moby Dick. Affascina la capacità e la maestria con cui Capossela riesce a trovare una arrangiamento evocativo e perfettamente misurato per ogni canzone. Si percepisce, di conseguenza, nettamente la differenze tra le atomosfere del primo disco, tutto sospeso tra blues, flok americano e irlandese, dilatate ballate al piano, e il secondo disco, tanto meditaranneo da ricordare quasi in alcuni passaggi Creuza de Ma di De Andrè.
Marinai, Profeti e Balene rimane comunque un disco dal difficile ascolto, che ci richiede uno sforzo notevole, come se il disco ci recitasse le battute di uno spettacolo teatrale che sta a noi mettere in scena.
Vinicio compone una bella antologia di testi letterari e attraverso la sua preziosa reinterpretazione riesce a costruire ponti sulla via della definizione di quella che è la condizione universale dell'essere umano: sempre sospeso tra scelta e colpa, delitto e castigo, santità e bestialità, volontà di determinarsi e paura di smarrirsi.

Voto:8/10
13thSpaceman

lunedì 22 agosto 2011

JAKSZYK, FRIPP & COLLINS - A Scarcity Of Miracles ( A KIng Crimson Projekct)


JAKSZYK, FRIPP & COLLINS
A Scarcity Of Miracles (A King Crimson ProjeKct)
(DGM)

Giuro, iniziavo a perdere le speranze in una nuova uscita dei King Crimson; otto anni di silenzio discografico sono bastevoli a far pensare che ormai quella sia una storia chiusa.

Per cui, ammetto di essere stato piacevolmente sorpreso, sulle prime, incappando in questo disco. Acquisto immediato, naturalmente, come il dogma di fede crimsoniana esige.
Non trattasi, alla fin fine, di una vera e propria uscita del gruppo – ma, suvvia. Due dei tre compositori sono nomi noti al pubblico crimsoniano, mentre Jakszyk è parte della line-up della 21th Century Schizoid Band.
Per non parlare di Tony Levin al basso.
Non per nulla l'uscita è indicata, appunto, come un ProjeKct, quei sottogruppi che Fripp volle far nascere fra la fine dei '90 e l'inizio del 2000, come ispirazione al gruppo-madre.

Devo ammettere anche di aver avuto aspettative notevoli, per questo disco.
Ok, i King Crimson non producono nulla di veramente fulminante dagli '80, ma erano, fino ad ora, riusciti comunque a mantenere un livello più che dignitoso, salvo qualche occasionale caduta.

Ma qui, qui si parla di tutt'altro.
La schizofrenia e la tensione che percorrevano la musica del gruppo almeno almeno da Larks Tongues, sembrano scomparse nel nulla – non ce n'è la minima traccia.
E' un disco completamente rilassato, tranquillo, moscio; frippertronics ambient, ritorno alla batteria acustica, basso nella norma, sax di rifinimento. Per non parlare di quanto mielosa suoni la voce di Jakszyk.
Sembra quasi un recupero della forma canzone per trasponderla in versione crimsoniana del terzo millennio; un progetto, ammetterò, stuzzicante, ma che, al momento, fallisce in maniera miserabile.

Noia, noia, noia; solo la title-track e The Other Man ci regalano qualche emozione, il resto dei pezzi sono piatti, degni di nota solo in qualche fugace passaggio.

In sostanza – concettualmente interessante, praticamente mediocre.
Un disco di transizione? Si spera, sì; una migliore evoluzione dell'idea di base sarebbe qualcosa di oltremodo intrigante. Per ora, tuttavia, non è un disco consigliabile.
Attenderò in fede di sentire qualche altra nuova di qualche altra uscita.

Voto:5,5/10
Laolet

martedì 9 agosto 2011

J MASCIS - Several Shades of Why


J MASCIS
Several Shades of Why

(Sub Pop)

Iniziamo col dire che per noi non è certo una sorpresa. Non è,infatti, la prima volta che il signor Mascis si dedica alla chitarra acustica.
Fondamentalmente, a parte i chili di distorsioni e le rullate di batteria, siamo in ambito Dinosaur Jr., questo è innegabile.
E' come se ascoltassimo dei demo ben registrati destinati a diventare materiale per il prossimo disco del gruppo.
Lo sforzo, dunque, non deve essere stato moltissimo per il nostro cantautore ormai canuto.
Malgrado questo,Several Shades of Why colpisce impietoso con le sue melodie calanti e tristi costruite sopra armonie e arpeggi di rara bellezza.
Ancora una volta è incredibile come J Mascis parli di solitudine e di passato, tematiche che trovano il proprio habitat naturale in questa veste tanto intima.
Certo, ogni tanto il prodigioso chitarrista non si trattiene e fa straripare tutto il proprio talento. Is it Done è in questo senso esplicativa con il suo assolo distorto, che non è affatto fuori luogo e non disturba con la sua violenza la dolcezza dimessa della ballata. Difficile parlare di vere e proprie perle in un disco che fa dell'uniformità uno dei propri punti di forza. Ci sono ovviamente dei preziosi quadretti melodici che attirano l'attenzione sin da subito, nell'immediatezza del primo ascolto: Very Nervous and Love, la title-track, l'iniziale Listen to Me, la distorta Can I.
Un ottimo album, nient'altro da aggiungere.
Si tratta forse del vero nuovo cantautorato americano che mette in dubbio il primato della vecchia guardia dei songwriter stelle e strisce (John Hiatt e Townes Van Zandt per capirsi) e dei loro "eredi"?
Per ora possiamo solo dire che questi vecchi punk (vedi anche in recente disco solista di Thourston Moore) sono anche degli abilissimi cantautori quando imbracciano la chitarra acustica. E a noi - amanti delle fratture e dei rinnovamente di quelle configurazioni artistiche statiche che rischiano di diventare di maniera - ci piacciono da morire.

Voto: 7/10
13thSpaceman

PJ HARVEY - Let England Shake


PJ HARVEY
Let England Shake
(Island)

Etereo, cupo, contemporaneo. Questo è il miglior disco di PJ, che sembra aver raggiunto una maturità artistica e cantautorale veramente notevole.
Lontano dai ridicoli punkeggiamenti dell'ultimo minuto e dell'ultima moda, dai pessimi imitatori di un passato diventato tale sin da subito: questo disco dà una lezione di classe a molti, e mostra un lato della nostra che non era ancora emerso con tale vividità nei lavori precedenti.
Let England Shake potrebbe essere definito come un concept album incentrato sull'uomo contemporaneo e sulle paure maturate nel secolo breve: morte, amore, guerra.
Tutto ruota, poi, attorno alla patria della Harvey: l'Inghilterra, con le sue ombre e le sue nebbie, le sue radure.
La morte silenziosa si aggira per queste canzoni tormentando l'ascoltatore come il Bobby della title-track, il senso di colpa regna sovrano insieme alla voglia di dimenticare ("I have seen and done things i want to forget..."), le scene di battaglia sono vive raffigurazioni che ci fanno sentire il puzzo di polvere e di cadaveri, e non c'è possibilità di consolazione nell'ascolto di epitaffi recitati su aree musicale almeno apparentemente pacificate.
Musica e parole combaciano. Raffigurazioni poetiche prepotentemente concrete sono trascinate da dilatate odissee musicali in minore, che vanno a costruire splendide e brevi ballate dal sapore dolceamaro.
Si sente fortemente il decisivo contributo della band composta da due esperti del genere come Mick Harvey e l'ormai storico collaboratore John Parish.
In chiusura la splendida ballata The Colour of The Earth, cordoglio di un protagonista che ha assistito alla morte dell'amico Louise in battaglia e che mai dimenticherà il colore di cui si è tinta la terra quel giorno. Così come per noi, una volta finito il disco, sarà impossibile mettere da parte il vortice emozionale suscitato da quello che abbiamo ascoltato negli ultimi quaranta minuti.
Sarà impossibile dimenticare quegli schizzi di bianco e nero - come nella copertina - che nell'ultimo secolo si sono sempre più mescolati nei disperati tentativi di affermazione della natura umana, nelle sue condotte pratiche e intellettuali.

Voto:8,5/10
13thSpaceman

giovedì 5 maggio 2011

CESARE BASILE - Sette Pietre per Tenere il Diavolo a Bada


CESARE BASILE
Sette Pietre per Tenere il Diavolo a Bada
(Urtovox)

Questo disco - lo dico subito - è uno dei più interessanti album di cantautorato italiano uscito negli ultimi tempi. E la cosa più importante è che non abbiamo a che fare con un cosìdetto big, ma con un artista sempre rimasto nell'underground che dovrebbe esser preso a modello, per onestà e capacità artistica, dai giovani emergenti.
Del resto Cesare Basile non è un autore noto ai più, ma la sua carriera musicale è tanto varia, ricca di esperienze. Alle spalle di questo nuovo lavoro ci stanno scelte artistiche (ad esempio l'esclusione della batteria a favore di percussioni sparse, oppure l'assenza quasi totale di chitarre elettriche) e scelte personali di vita (sopratutto il ritorno a Catania, la città natale, forse un tentativo di elaborare il sentimento conflittuale d'amore-odio che l'autore nutre per essa) che hanno inevitabilmente influenzato la scrittura e le atmosfere dell'album.

E così i versi si dispiegano nella loro eleganza e misuratezza a descriverci storie di condanne senza assoluzioni, macabre danze vermiformi, dolci serenate d'amore, preghiere e canti popolari.
Impossibile non notare una certa influenza del cantautorato classico italiano: anzitutto il binomio De Andrè-Bubola (Sette Spade è l'esempio più eclatante), ma anche, sparsi qua e là, De Gregori (Questa Notte l'Amore a Catania) e, magari, Claudio Lolli (L'ordine del Sorvegliante).
Ma non mancano, certamente, atmosfere esterofile, che richiamano la colta murder-ballad nick-cave-style (La Strofe della Guaritrice) o l'ombroso country-folk di Lanegan (L'Impiccata).
Aggiungiamo poi un trittico di ballate folk siciliane e abbiamo tutti gli ingredienti per un album che, pur ricco di rimandi e di atmosfere, fa della coerenza uno dei propri cardini estetici.

Voto: 7,5/10
13thSpaceman